lunedì 9 novembre 2015

Occhi azzurri, quasi viola.

 Racconto di Paolo Parigi



Quando manca così poco al giro di boa restano solo due possibilità: cercare di cristallizzare la vita nel presente, eternandolo, dilatandolo all'infinito nel passato e nel futuro, rendendolo fulcro delle esperienze fatte e da fare, punto di equilibrio, perno attorno al quale far girare l'esistenza, oppure accettare con saggezza e spirito propositivo la svolta che di lì a poco proietterà il tempo in una dimensione diversa, quella del non ritorno. Trentanove non erano poi così tanti. Il problema era che annunciavano i quaranta.
Quasi quattro decenni in cui era successo di tutto. O niente, questione di punti di vista. 

Quel sabato sera Alessandro stava sorseggiando rum di prima qualità, invecchiato al punto giusto, ambrato, sprofondato nel suo divano foderato di pelle lavorata “a pieno fiore”, la migliore, la più pregiata. Chissà poi perché la chiamavano così: che c'entrava il fiore con la pelle? Cosa poteva mettere in relazione la vitalistica deflagrazione cromatica di un fiore con l'epidermide cadaverizzata di un animale nato, vissuto e soppresso in nome dell'alto di gamma?


Di fiori comunque in casa sua non ce n'erano. I suoi fiori, usava dire agli amici abusando di una metafora scontata, erano le donne. Donne non conquistate, non corteggiate né viziate. Donne che pagava per venirlo a trovare a casa. Niente a che vedere con "fotomodella brasiliana cerca amici" o "massaggiatrice  disponibile per affettuosa amicizia". Nulla a che fare nemmeno con foto sgranate in rete, gallerie di more in pose procaci su pavimenti con piastrelle fantasia. Tutt'altro: prostitute di lusso, che facevano capo a persone di mondo, abituate a trattare con gente di livello, in piena riservatezza, alla vecchia maniera, senza mettersi in vetrina sul web.
Con le donne a pagamento era più facile. Specialmente in un momento della vita in cui intraprendere relazioni serie cominciava a essere complicato. Lui preparava l'atmosfera, con la musica giusta, i millesimati, i sigari di marca, le fantasie. Loro si preparavano a esaudire i suoi desideri. Niente di estremo, nulla che andasse oltre le pratiche consuete. Solo, era fondamentale, orchestrato in modo estetizzante: ci voleva l'abito giusto, l'intimo giusto, l'accessorio giusto. Benvenuta anche la chirurgia plastica, forme perfette, cubofuturismo di carne. 

Ognuna di queste donne, a seconda delle serate, diventava una parte di quella che lui avrebbe voluto fosse la sua compagna ideale, la persona che avesse in sé tutte le diversità di cui poteva alimentarsi la sua smania di totalità, il suo desiderio di riunire in un solo essere universi differenti in funzione di un'entità perfetta, definitiva ma estemporanea. Questo perché, pensava, ogni cosa, compreso ciò che nel momento in cui viene vissuto sembra avere in sé il seme dell'eternità, si rivela fugace.
Dopo qualche anno anche l'immagine di una donna amata alla follia e mai più vista comincia a farsi opaca. Dapprima si perde qualche dettaglio dei lineamenti, poi si finisce per non riuscire più a mettere a fuoco tratti caratteristici come la bocca e il naso. 

Se pensava a Elettra, non riusciva più a ricomporla in un insieme coerente. Al massimo riusciva a riportarne alla memoria il colore degli occhi, i capelli, non senza un certo sforzo la voce. Frammenti. 
La loro ultima volta in compenso lo ricordava perfettamente. Avevano diciassette anni. Lei il giorno successivo sarebbe partita per andare a stare con la famiglia in un'altra città, lontana, irraggiungibile nelle menti e nelle azioni degli adolescenti. Pur non riuscendo a ricostruirne in modo definito il volto e il corpo, sentiva ancora i muscoli delle sue gambe mordergli i fianchi.  
Avevano deciso che la storia sarebbe finita quel giorno, per non soffrire della reciproca lontananza. Dopo quel pomeriggio non l'aveva mai più vista. Chissà dov'era. Qualcuno gli aveva detto che era ritornata ad abitare lì in città, ma mai gli era capitato di incrociarla e probabilmente sarebbe stata così diversa che anche incontrandola non l'avrebbe riconosciuta. Come lei forse non avrebbe riconosciuto lui: la chioma bionda, mossa, imperfetta, non liscia da bello di una volta, si era trasformata in un cranio rasato, che lasciava scorgere sulla nuca alcune voglie violacee, sgocciolate lì in malo modo da un Pollock inetto. 
Riportò la mente al fatto che tra non molto sarebbe arrivato un fiore profumato di nuove fantasie. 
Azionò il lettore. Poche note e l'atmosfera si fece perfetta, qualcosa tra lo struggente e il giocoso. Fece un respiro profondo e spalancò la porta-finestra, lasciando che l'aria fredda di gennaio penetrasse, tagliando il tepore. 
Uscì sul terrazzo e guardò giù, verso la strada, dall’alto dei suoi duecento metri quadri al dodicesimo piano. Strano, l'amica per una sera che stava aspettando – "una delle mie migliori" gli aveva assicurato Eveline – non era ancora arrivata. Di solito sentiva, puntuale, il suono del citofono alle dieci precise. Rientrò e si mise a gironzolare annoiato per l’open space. Si ricordò che non si era lavato i denti.
Mentre riponeva lo spazzolino si guardò attentamente il volto allo specchio: rughe di espressione che avevano cominciato a solcargli la pelle almeno dieci anni prima. Sollevò la camicia rossa e scoprì il torso. Adipe zero, vanità da quattro soldi. 


Aveva appena acceso il televisore che suonò il campanello.
Aprendo la porta restò quasi deluso. Statura, zigomi, labbra: tutto troppo poco vistoso. Begli occhi però, azzurri, quasi viola. 
– Ciao.
– Ciao.
– Entra, accomodati. 
Il suono promettente dei tacchi a spillo bianchi, troppo bassi per i suo gusti, introdusse la frase successiva.
– Vuoi darmi il soprabito?
– Certo… hai già caldo anche tu, vero? – gli disse lei lanciandogli un’occhiata maliziosa di repertorio.
L’aiutò a sfilarselo. Facendolo le prese una mano e quasi con noncuranza la sfiorò con le labbra, replicando per l'ennesima volta il trito rituale che inscenava con tutte.
– Cosa beviamo, Alessandro?
– Certo, il suo nome lo sapeva, Eveline l'aveva istruita bene. Gli pareva di sentirla: "Trattate il cliente con una certa confidenza, ma sempre con garbo, mi raccomando lo stile. Chiamatelo subito per nome, ma fatelo come se foste delle amiche, delle vecchie amiche. Questi bambinoni rincoglioniti vogliono divertirsi, ma senza rinunciare alla forma”.
– Io mi chiamo Dharma, – continuò.
– È il tuo vero nome? Ha qualcosa di…
– Di finto. Io lo odio, – lo interruppe.
– È stata mia nonna, – proseguì.
– Ti andrebbe un vero rum cubano? Ha un aroma stupendo, – tagliò corto lui.
– “Stupendo” è uno strano aggettivo per un aroma, – rispose con tono leggermente beffardo, sempre dandogli le spalle, continuando a guardare fuori dalla finestra, verso un punto indeterminato. 
  Potrebbe essere definito pieno, ricco… ma stupendo è inadatto. 
– Hai ragione, ma guardare te, che sei stupenda, mi ha indotto a scegliere una parola sbagliata.  
Dialoghi come si deve, pensò, ecco la differenza, ecco perché era giusto pagare di più, ecco perché, era sacrosanto volere il meglio.
Donne che fanno i master e poi decidono che è meglio darsi per soldi. Se fosse stata russa sarebbe stata un ingegnere missilistico. Nella nostra immaginazione laggiù sono tutti ingegneri missilistici o scrittori. Gli venne in mente la prostituta del libretto di Dostoevskij, miseria da giocare a redimere, tempi lontani.


– Ti parlavo del nome, – insistette lei.
– Certo, tua nonna, il nome.
– Appunto, il nome Dharma lo ha quasi imposto mia nonna. Uno stupido nome hippy. Tra l'altro non credo che dharma sia una parola femminile...
– E tuo padre non ha detto la sua?
– Non ho padre, non ho mai avuto un padre. È la prima cosa che ho imparato a dire agli altri. A scuola, alle amiche che venivano a casa nostra… mi hanno detto che la chiamava “la scema".
– La scema chi?
– Lei, mia nonna chiamava così mia madre. Perché aveva avuto tenere il figlio.
– Tuo fratello?
– No, non ho fratelli. Si riferiva a me. Una figlia che non serviva, per di più di un padre che non si sapeva chi fosse.
– Be', conosco parecchie storie simili e...
Non fece caso al fatto di averlo interrotto, continuò come se stesse parlando da sola.
– Anche se una volta, mia zia, la sorella di mia madre, mi ha confessato, anche se è un po' fuori, dicono, e s’inventa storie tutte sue, mi ha detto che lei sapeva chi era mio padre e che non gli avevano detto niente, apposta, perché era lontano ed era troppo giovane. Un padre inutile e una madre scema, così, mi riferiscono, diceva mia nonna.
– Dharma, non sono abituato a parlare di questioni intime con…
– Una puttana?
– Per me questa sera sei un'amica speciale.
– No, sai benissimo cosa sono. Sono qui per questo.
– Io so, io vedo, che sei una ragazza bellissima e...
– Mia madre dice che in alcune cose in cui sono precisa a mio padre, cose che però non si vedono tanto... nonostante poi dica subito dopo che non si ricorda neanche più come era fatto.
– Tua madre, immagino, non sa che fai... cioè insomma che sei...
– Non lo sa quasi nessuno. E poi quello che faccio riguarda solo me.
– Sì, certo, era così, tanto per parlare. Senti, ti propongo di mollare questi discorsi e assaggiare questo rum dall'aroma ricco, come diresti tu.
Dharma sfoggiò il suo miglior sorriso professionale, gli prese di mano il bicchiere e, mettendogli delicatamente una mano sulla spalla, lo guidò verso il divano. 
Alessandro si sedette sulla parte angolare e prese in mano il telecomando del lettore. Lei si accomodò accavallando le gambe accanto a lui, sul lato corto dell'imbottito. Lo spazio si riempì da note minimali e assolute.
– Ti piace? – le chiese.
– Sì. È musica di una volta? Tipo roba che ascoltava mia madre?
– Non credo tua madre l'ascoltasse. Era già musica sorpassata quando io avevo la tua età. 
– Che ne sai della mia età? 
– Venticinque?
– Ventidue. 
  E io quanti ne ho secondo te? 
– Vediamo... quaranta forse? 
– Togline uno. Dharma si alzò dal divano. Cominciò a sbottonarsi la camicia viola. Come gli occhi. 
– Hai detto di toglierne uno, no? Un indumento forse? 
– Scaltra, niente da dire. Benissimo, vai, continua.


Ancora il ricordo, di nuovo Elettra. Era la serata. Affioravano memorie inabissate da oltre due decenni. Forse era l'odore di corpo femminile liberatosi dalla pelle di Dharma che lo stava obbligando a ricordare. 

Gesti goffi quelli di lei quel pomeriggio in camera di lui, non quello dell'addio, un altro. Maggio '82. In sottofondo un disco dei Roxy Music, scelto apposta, più adatto alla situazione vissuta tra il cuore e il trasgressivo. Cose da adolescenti. Belle perché sapevano di ormoni, avevano un odore forte. Non ci si lavava in continuazione come ora, non c'erano trentamila bagnoschiuma con cui mistificare il sesso. Dieci minuti prima sul piatto i Jam di Paul Weller. Album “The gift”. Il dono. Suonano come promesse, minacce o verità i titoli dei brani che ascoltano i poco più che bambini. Magia che cessa di colpo quando si entra nel film della vita adulta, bello quanto vuoi, ma comunque in bianco e nero. Poi però i Roxy, un trentatré che lei aveva rubato per lui in un negozio del centro. Improbabile minigonna e scarpe bianche su cui camminava incerta. Maglietta rosa come usava allora, presa a sua sorella Carla, quando ancora non aveva cominciato anche lei a conciarsi come una santona, diceva. Testa bionda vera e occhi azzurri. Quasi viola. Ma i lineamenti erano ancora offuscati, non ricordava bene la bocca, le labbra. In compenso sentiva ancora il contatto con la sua pelle, col corpo divorato sul letto cigolante senza problemi perché tanto in casa non c'era nessuno, i genitori di lui erano fuori, al lavoro. Un momento come tanti altri, ma vissuto in una fase della vita in cui il minuto è ora, l'ora è giorno, il giorno è mese, il mese è anno, l'anno è eternità. 

Ricordi. Erano queste le fantasie che questa ragazza a gettone gli avrebbe venduto quella sera? Altre volte erano stati gli abiti, i gesti, gli accessori, gli atteggiamenti a condurre il gioco. Che stavolta fossero i pensieri? Le parole non recitate ma dette? Alessandro guardava Dharma. In piedi, accompagnava con movimenti studiatamente lenti il repeat del brano che avevano appena ascoltato. Occhi azzurri. Quasi viola.I bicchieri mezzi pieni. 
– Buono vero? – commentò Alessandro. 
– Buono è un aggettivo adatto ma incompleto per un rum come questo. 
– Già, è vago. O assoluto, dipende dai punti di vista.
Una compagnia di livello, pensò ancora una volta soddisfatto; mentre lo faceva spostò lo sguardo da lei a ciò che gli stava attorno: mobili minimal, soprammobili etnici ma non vistosi, alle pareti litografie astratte di un certo valore. Le grandi vetrate delle finestre gli regalavano il buio di un cielo stellato invernale, proteggendolo a dovere dal freddo e dai rumori della città, dal sabato notte ovvio e senza sorprese che viveva la maggior parte delle persone.  
– Parliamo ancora un po', che ne dici? – si lanciò, entusiasta di questo nuovo fiore così ben coltivato.  
– Prima beviamo, – propose lei continuando a dondolarsi. Poi, assumendo di punto in bianco una postura esageratamente eretta, guardando Alessandro dritto negli occhi disse: – Tutto?
– No, no. Devi centellinarlo, assaporarlo. È come una donna, esige dei preliminari, vuole essere capito prima di essere goduto.Similitudini scontate, da periodici per maschi in cerca di conferme.
– Io non provo piacere.
– Vuoi dire che...
– Solo da sola.
– Vieni a sederti.
Sul tavolino trasparente di fronte la bottiglia di rum attendeva di riempire i bicchieri.
– Hai detto "da sola"?
– Sì.
– Perfetto, hai appena trovato il tema della serata. 


Povera testa di cazzo, pensò di se stesso mentre le porgeva con atteggiamento ieratico un astuccio pieno di oggetti lucidi, cromati.
Bevvero ancora.



Si svegliò che era giorno fatto. Domenica, quel silenzio inerte rotto da qualche lontano e pesante rintocco di bronzo voleva dire domenica. Aveva dormito tanto o poco? Dal mal di testa sembrava poco. La bocca era impastata. Il letto era ancora fatto e lui ci si trovava sopra, supino e vestito. Poi si ricordò. Dharma. Sicuramente se n'era andata da ore. 
Si alzò di scatto. Cercando di restare in equilibrio entrò in bagno. Il mosaico a tessere rosse e blu scuro, luccicando alla luce del giorno fatto rivelava tutta la sua vacuità. Essere un cesso non è una colpa, è una funzione. 
Socchiudendo gli occhi prese dal tubetto una ditata di dentifricio e si mise a masticarla. Sciacquatala via andò verso la tazza e, ancora con qualche difficoltà a stare dritto, prese la mira. 
Poi un fruscio.
Proveniva dal soggiorno. 

Non si allarmò. Non era la prima volta.
Era rimasta lì.
Cominciava a ricordare. Una serata contemplativa. Trascorsa a guardarla. Due imitatori di una scena da romanzo erotico per donne stufe. E alcol. Fino a stordirsi. Sotto, a ripetizione, dolcemente ossessionanti, i Velvet Underground. Si trascinò barcollando in soggiorno. I passi cigolavano sul parquet scuro, un puttanaio di euro a metro quadro. Stava dormendo prona sul divano. Su di lei una coperta. Chi gliela aveva data? Lui no. Si girò automaticamente verso l'armadio a muro incassato nel corridoio; vide che un'anta era socchiusa. Se l'era presa da sola, cercando nel posto più ovvio: non gli dispiaceva che si fosse sentita un po' a casa. Sul tavolino ancora le banconote. Grosse. Considerando che era rimasta lì tutta la notte più tardi ne avrebbe aggiunte altre.


Era bello guardarla dormire, ascoltare e odorare quel respiro pesante, post-alcolico, senza maschere. Forse era proprio questa l’intimità, forse era proprio questo quello che poteva fare di una donna la tua donna. Ebbe un inatteso moto di affetto, di un genere che non provava mai in situazioni del genere. Le si sedette accanto, dalla parte dei piedi. Gli venne voglia di accarezzarla.
Portava al collo una catenina di metallo con appeso un monile rotondo con raffigurato a rilievo un simbolo circolare, una specie di ruota raggiata. La sera prima lo aveva notato appena. Era rivolto all'indietro, a penzolare sulla schiena scoperta fino alle scapole. Si allungò su di lei e prese in mano il pendente con delicatezza, per non rischiare di svegliarla. Lo girò con cautela e scoprì sul rovescio una piccola scritta, incisa in corsivo sul metallo, forse oro bianco. "Da zia Carla per i tuoi diciotto anni. Vivi seguendo il tuo nome, Dharma". Gente un po' squinternata, pensò. Le sollevò i capelli per baciarla sulla nuca. 

Le vide. Vide quelle piccole voglie violacee. Fece scorrere lo sguardo e incontrò il braccio sinistro, magro, che penzolava nudo fuori dalla coperta: il tricipite era scolpito in modo leggermente ipertrofico. Poi le guardò il viso e vide che la bocca, nel volto girato di profilo con la guancia destra appoggiata al cuscino sul bracciolo del divano, lasciava intravedere dei canini aguzzi.
Zia Carla. Invaghita anche lei di filosofie orientali. La madre giovanissima. Ventidue anni. Occhi azzurri. Quasi viola. 


Si alzò di scatto.
Restò immobile per qualche istante.  
Corse in bagno. Si spogliò. Entrò in doccia, regolò il miscelatore sul blu e lo spinse in su azionando il getto. Allungò le braccia in modo da tendere i tricipiti e li guardò attentamente. Restò un po’ sotto l’acqua gelida.
Uscito dal box, si sedette sull’asse del wc. Restò lì un po', senza pensare a niente. Dal bordo inferiore dello specchio, sopra il lavabo, affiorava la sua immagine riflessa. Aprì la bocca. Non è che i canini fossero particolarmente aguzzi. Il dentista gli aveva detto che apparivano aguzzi perché erano ruotati rispetto alla norma. 
Si alzò e ritornò in soggiorno. Non barcollava più. 

Aprì la finestra, sentiva il bisogno di un'iniezione d’aria.
Si sedette di nuovo accanto a lei. Accese il lettore. Selezionò il solito brano, lo stesso ascoltato decine di volte la sera prima.
Sunday Morning riempì con la sua malinconia pop il silenzio del soggiorno. 
Early dawning
Sunday morning
It's just the wasted years
So close behind
Raccontavano la verità quelle parole.
Sono ancora ubriaco, pensò. Sto vaneggiando. 
Poi eccole, sul tappeto rosso. Le scarpe di Dharma, bianche. Leggermente sformate verso la punta, sui lati esterni. Vecchie. Le aveva notate, appena era entrata. Lui notava tutto. Un po' vintage aveva pensato.
Di Elettra non poteva certo ricordare i piedi, tutt'al più avrebbe potuto dire che non erano grandi. Le scarpe però, chissà perché, gli erano rimaste impresse. Forse perché lo divertiva il fatto che sui tacchi barcollasse; senza poter immaginare che da grande avrebbe guardato a quel difetto come si legge una poesia. 
Ora erano lì. Le scarpe su cui si arrampicava inesperta, leggermente sformate verso la punta, sui lati esterni, erano lì, sul tappeto rosso.
Elettra. Il volto, a parte gli occhi azzurri, quasi viola, non riusciva più a metterlo bene a fuoco. 
Chissà cosa faceva ora. Magari aveva dei figli. 


Riproduzione riservata

















venerdì 5 dicembre 2014

Dissenso (Mi è andata bene perché sono un artista)


Racconto di Paolo Parigi




Il contatto delle dita della mia mano destra con la ceramica liscia della candela di accensione mi sta inebriando. Avrà almeno trent'anni, l'odore di grasso lubrificante e scintille è rimasto. Nella sinistra stringo una bottiglia. I polpastrelli accarezzano lenti i rilievi dorati che ne blasonano l'etichetta. Roba buona, ricevuta clandestinamente.


Quello che accadrà tra poco non rimarrà nella storia ma spero guarirà la mia coscienza. Ci saranno delle conseguenze. I miei settantasei anni mi aiuteranno ad affrontarle con quella sorta di rassegnazione virtuosa che chiamano filosofia.


Mi abituai abbastanza rapidamente al "tempo nuovo", iniziato nel 2021. Decisero di chiamarlo così quelli che da allora comandano. Sono molto meno anziani di me. Al momento del putsch avevano dai venticinque ai trent'anni. Io cinquantasei. La nuova generazione ha imparato le loro biografie a memoria. Sono le prime parole dettate dalle maestre agli alunni. L'ultima volta che mio nipote è venuto a farmi visita con mio figlio mi ha mostrato orgoglioso il quaderno. Le telecamere del parlatorio avranno senz'altro apprezzato.

Vite dei "fondatori della rinascita" – l'informazione ufficiale, ridotta a un unico quotidiano cartaceo, li nomina usando questa formula novecentesca – raccontate nella piatta e scorrevole prosa di Stato: un esempio di "ritorno a quella virtuosa e schietta semplicità che la modernità sembrava aver dimenticato". Nelle assemblee alle quali gli "individui consapevoli" devono obbligatoriamente partecipare, ricorrono spesso queste parole. 


Mi rompevo i coglioni durante quelle aggregazioni forzate. Certo, ora darei due dita per essere lì anziché qui. Il problema è che poi me ne rimarrebbero solo sette. Nove anni fa mi hanno tolto il medio della mano sinistra. Ai destrimani quello della sinistra, ai mancini quello della destra: una forma di clemenza. "Una punizione simbolica" disse il giudice al momento di emettere la sentenza. Il medio, il gesto, tutta quella paccottiglia degli ultimi decenni del XX secolo, roba in cui non avevo mai creduto. Evidentemente per loro, per chi comanda, quello sberleffo archeologico è ancora importante, significa ribellione. Ciò nonostante l'enorme mano, con tutte le dita mozzate tranne il medio, collocata nel 2010 davanti all'edificio della Borsa di Milano, opera di un artista al tempo quotatissimo, fu rimossa per essere ricoverata in un luogo sicuro, al riparo dalle intemperie e dai vandalismi. Il potere le riserva una cura particolare. Un evidente controsenso. Uno dei tanti in questi decenni di totalitarismo.

Subito prima che il chirurgo di Stato mi asportasse il dito, l'anestesista recitò la formula che tutti qui dentro hanno dovuto ascoltare. Lo fece automaticamente, senza alcuna solennità, stancamente, perché il compito di rendere soft i ferri del boia in camice verde gli era stato imposto, non se l'era scelto. È da quando udii "in medio ne stat virtus" che sono chiuso qui, dal momento in cui sentii con le mie orecchie quel rovesciamento lapidario del proverbio latino, superficiale come tutti i proverbi. 



La mia cella di vetro da venticinque metri quadri con vista sulla città è il risultato della parcellizzazione di un grande attico. Sono un privilegiato separato da pochi altri privilegiati per mezzo di pareti insonorizzate con lastre di piombo e lana di vetro. Ad altri, a chi non conta niente, toccano i buchi molto più in giù, scavati nei primi cinque piani di questo Istituto di Rieducazione per i Traditori del Giusto: quattro metri per due con le pareti in mattone faccia a vista, soluzione estetica che l'Assemblea della Bellezza Radicale ha scelto poiché metafora di un mondo da ricostruire in chiave di solida essenzialità.


Mi è andata bene perché sono un artista. Lo ero. Ero ai vertici della piramide culturale. I temi che mi assegnavano li svolgevo diligentemente. E considerando che per non restare ai margini avevo scelto di rinunciare alla mia dignità, cercai anche di convincermi che ero nel giusto. Si fa qualsiasi cosa pur di non perdere il proprio ruolo.

Ci si abitua facilmente alla propria pochezza. Forse è stato più arduo abituarsi alla mancanza del web. Sentirsi di colpo isolati da tutto, fu quello l'effetto. Le requisizioni dei pc e dei device durarono a lungo. Ci vollero un paio d'anni per farli scomparire tutti. Il giovane agente – indossava l'uniforme in fibra di canapa che negli anni successivi ci siamo abituati a vedere ovunque – venuto a sequestrare i miei dispositivi fatti per parlare col mondo, mi disse che da quel momento in poi avrei vissuto meglio.

Le due pareti esterne della mia prigione di prima classe formano un'unica grande finestra angolare. Dalla conformazione si capisce che in origine la parte superiore si poteva aprire a ribalta. Quando l'edificio fu trasformato in penitenziario, i vetri furono sigillati. Non ci sono tende. La luce invade presto al mattino la mia cella a cinque stelle; nonostante ciò mi hanno vietato di dormire bendato. "La luce oltre che un dono è un simbolo" mi hanno ripetuto più volte gli addetti alla sorveglianza, "una metafora della rinascita". Uno di loro l'ultima volta, dopo la mia ennesima lamentela, ha accompagnato la parola "rinascita" con un gesto rotatorio della mano. Ricordo che un prete usò lo stesso gesto per porre l’accento sulla parola “conversione”. Avrò avuto otto anni. Se non altro in quel caso – lo appresi dopo – il gesto era coerente con l'etimologia del termine scelto.



Se sono finito qui a guardare il cielo tutto il giorno, è per colpa del cazzo. Non del mio, non ho fatto male a nessuna, a nessuno. Gli stupratori andrebbero neutralizzati, resi incapaci di nuocere. Non ho mai avuto problemi a dirlo, nemmeno ai miei tempi, quando ad affermare cose così, si finiva etichettati. All'umanità è sempre piaciuto incasellare le persone. Anche chi comanda oggi ha strane idee sulla questione violenza carnale. Idee sfuggenti. Ai dissidenti staccano le dita, a chi commette il più turpe dei reati invece lasciano metaforicamente attaccata quell'arma da vigliacchi.

Mi hanno rinchiuso quassù, al trentasettesimo piano, per colpa di un membro, sì, ma non di carne, disegnato. Nella mia mente. Un concetto che volevo si realizzasse nel marmo. Rigorosamente in un unico blocco. La penso come Michelangelo: la forma è già nella materia, missione dello scultore è farla emergere. Adottavo scrupolosamente la sua tecnica: iniziavo a sbozzare il parallelepipedo di pietra frontalmente, facendo affiorare la figura a poco a poco, passando progressivamente dal rilievo al tutto tondo. La fatica era il premio, il sudore il suo distillato. Non esiste l'artista, esiste solo l'artefice.



Quando l'11 settembre 2031 un commando fondamentalista fece irruzione alla Galleria dell'Accademia di Firenze svuotando i caricatori di cinque vecchi AK47 sul David e su tredici visitatori, pensai che l'umanità e l'arte fossero finite.

I nuovi potenti esortarono a fare gli opportuni distinguo. Qualcuno trovò delle motivazioni per quel gesto. Uno storico dell'arte di apparato sentenziò che quel marmo atletico ridotto in mille pezzi in un certo senso rendeva giustizia a secoli di dominazione da parte dei modelli di perfezione. "E poi David da troppo tempo si è trasformato in aguzzino", aggiunse con cipiglio convinto.

L'uomo che disse queste cose in televisione era lo stesso che per anni aveva deciso cosa dovessero rappresentare le mie opere di regime. Io non sono stato meglio di lui. Sono stato suo complice.

Guardando giù da queste pareti-finestre la prima cosa che vedo è l'insegna di legno del "Vegando", una catena pubblica di fast food vegano che si finge slow esibendo sedie impagliate e recipienti per l'olio extravergine di oliva in vetro anticato. Il "tempo nuovo" ha bandito gli alimenti di origine animale. I nostri uomini di potere però la carne continuano a mangiarla. Quando sedevo ai loro banchetti, ci tenevano a farmi sapere che proveniva esclusivamente da pollame allevato a terra, secondo i buoni vecchi metodi tradizionali. Quando mi domandarono un'opinione su quel format di ristorazione statale, risposi che sarebbe stato bello chiamarlo "Las Vegan" ma non rise nessuno.


Proprio davanti al "Vegando" c'è uno dei miei primi marmi. Raffigura una ruota di legno. Una ruota di legno fatta di pietra. Vollero che riproducessi anche le venature. Realismo didattico. Si chiama "Ritorno al Tempo Nuovo". Demenza immortalata nella materia nobile. La vergogna non mi dà tregua. È perennemente sotto i miei occhi.



Il giorno dell'attentato al David la mia vita cambiò. Non c'è un nesso preciso tra le due cose ma andò così. Fu allora che cominciai a concepire l'opera che mi ha segregato davanti a questa enorme finestra panoramica. L'idea del cazzo nacque quell'11 settembre 2031. Sorrido, la chiamo spesso così tra me e me. Quando lo dico al vetro, faccio il dito medio senza il dito medio divertendomi a guardare la mia inutile sagoma riflessa. Ai miei tempi sarebbe stata una performance da Biennale di Venezia. Ora la Biennale non c'è più. I padiglioni sono stati riconvertiti in laboratori artigianali, dove si produce in modo etico. Ci fanno lavorare solo le donne però. Lo decisero quelli che comandano, tutti maschi. 



Anche in questo preciso istante mi sto accingendo a compiere un gesto che qualcuno riuscirebbe a definire artistico. Mi sto ubriacando perché da sobrio mi mancherebbe il coraggio per portarlo a termine. La bottiglia di rum me l'ha allungata di nascosto un secondino alcuni giorni fa. La fortuna è che almeno la carta, le matite e i pastelli, quando mi confinarono qui, mi permisero di tenerli. Ho anche una radio, ma l'ascolto poco perché le emittenti trasmettono solo world music e sinfonie. La tv in prigione è vietata. 
Il mio giovane carceriere desiderava dei disegni erotici. È un bravo ragazzo che non ha potuto scegliere. Ho disegnato per lui una decina di tavole in bianco e nero. Ho curato i dettagli più di quanto sono solito fare. All'accuratezza lenticolare preferisco la forza risolutiva del tratto compendiario. 

Gli ho chiesto di procurarmi anche una vecchia candela d'accensione. Sapevo – me lo aveva detto lui – che suo padre da giovane aveva avuto un'officina di riparazione per le automobili, poi requisita per essere trasformata in una falegnameria sostenibile. Ha accolto quella nuova richiesta con perplessità, ma è riuscito ad accontentarmi. Gli ho detto che mi sarebbe piaciuto disegnarne una. Ha senz'altro pensato che fosse il desiderio bizzarro di un anziano rimbecillito dalla solitudine forzata, ma ha provveduto. La sua priorità era portarsi a casa i miei vortici di corpi di carta.


La pornografia è stata bandita tanti anni fa. "La pornografia è sessismo" sentenziarono al tempo quelli che comandano, tutti maschi. "L'atto sessuale stesso è sessismo" rimarcarono un paio di anni dopo. "L'atto sessuale volto alla procreazione, non solo è sessismo, è anche sopraffazione, riduzione del corpo femminile a macchina per la continuazione di una specie che si è arrogata il diritto di dominare sulle altre" aggiunsero sei mesi dopo. 

Sui muri iniziarono a comparire stencil che recitavano messaggi quali "In pochi è meglio!", "Non moltiplichiamoci, sommiamoci!" e così via. Tanti punti esclamativi, ma non poetici come quello di “Ultravox!”, band che ascoltavo da ragazzo, in un'altra epoca dell'umanità, bensì festosamente lugubri. A imprimerli in grafie con pretese di avanguardia erano artisti di regime, come me, ma di rango inferiore. Giravano incappucciati. In realtà era un'uniforme il cui stile s’ispirava a uno street artist dall'identità misteriosa acclamato anni prima. 



Il partito unico di quelli che comandano ha progressivamente imposto il controllo delle nascite. L'imperativo morale è "ridistribuire equamente le risorse". Messo in pratica però in modo distorto, ridotto a "meno siamo, meglio è". Un figlio a coppia, solo per il ristrettissimo novero di coppie ritenute degne del nuovo corso della storia. Poche, pochissime. Selezionare il meglio, proprio come i cibi di qualità. Chi ha la sfortuna di venire concepito fuori dalla cerchia degli eletti è respinto al non essere. Non sono pochi gli sfortunati. Il sacrificio per la buona causa è ammesso: il potere dal 2021 a questa parte esige consenso assoluto, cieca fedeltà.



Per questo ideai, nove anni fa, un'opera d'arte a forma di sesso maschile. E non senza pretese scenografiche. Avrebbe dovuto eiaculare un fiotto di luce, un orgasmo di fotoni sparato in cielo. Iniziò così la mia brevissima dissidenza.

La mia condizione privilegiata mi consentiva di agire quasi indisturbato. Quasi. Mi recai personalmente alle cave di Carrara a scegliere il marmo. Un blocco unico, certo, come faceva il dio Buonarroti, alto oltre tre metri e lungo circa un metro e mezzo per lato. Una volta scolpiti membro e testicoli avrei praticato un canale che consentisse il passaggio del fascio di luce emesso da un potente faro fissato a una lastra di acciaio, la stessa che avrei usato come base per la scultura. La sfida consisteva nel piazzare il marmo e un gruppo elettrogeno per fornire luce davanti al Palazzo dell'Assemblea dei Genitori Alfa, organismo formato esclusivamente da cittadini di sesso maschile cui spetta ogni decisione in materia di pianificazione delle nascite. L'azione clandestina sarebbe dovuta avvenire a notte fonda ovviamente.


Rimase tutto sulla carta. Appena giunse al mio studio, il materiale fu sequestrato. Quelli che comandano furono informati dal personale delle cave. Tecnicamente non fu delazione, seguirono con zelo un protocollo. Umanamente fu infamia. A mettermi in croce bastarono i disegni. A piantare i chiodi in profondità furono le parole. Avevo infatti già dato un titolo all'opera: "Distopia? Col cazzo!". Faceva tanto ribellione colorata, mi piaceva. Un anziano sorvegliante mi ha riferito che lo storico dell'arte del potere, sempre lo stesso, all'epoca dei fatti definì argutamente la mia opera abortita "pietra dello scandalo". Dissociandosene a gran voce ovviamente.



E così eccomi qui, ora, con una bottiglia di rum in una mano e una candela d'accensione nell'altra. 


Il vetro temperato s’infrangerà.

Fra poco poserò la bottiglia e raccoglierò i fogli impilati sul pavimento. Una risma da cento, su tutti la stessa frase in stampatello: "Piove Dissenso". Il mio messaggio al mondo di sotto.

 Mi sento bene. 

L'alcol sta cominciando a fare effetto.
 Sento il bisogno di orinare ma devo trattenermi. 

Ho già vuotato mezza bottiglia. 


Altri due sorsi.

Questione di istanti.
L'età non mi ha rubato la forza; i muscoli si ricordano bene di quando lavoravo di mazzuolo e scalpello. Anche il superuomo Michelangelo scrisse che scolpire lo aiutava a mantenere il corpo in salute. 
Allungo il braccio destro sopra la testa. Lo piego ad angolo retto.

Adesso.


La frustata squarcia il silenzio. 

Veloce, col piede destro, forzo la ragnatela di cristalli sbriciolati. L'aria e la vita m’investono assieme alla colonna sonora ovattata della città. Tantissime biciclette. Pochissime auto elettriche: le guidano i poteri intermedi. Andando più su le cose cambiano radicalmente. Le massime cariche il dogma della sostenibilità lo calpestano allegramente. Le loro mani guantate amano stringere volanti vintage. Sfilate di cilindri assetati di benzina. Dispongono anche di circuiti riservati, dove lanciano a tutta velocità i loro bolidi scintillanti di cromature. Gare segretissime. Andavo spesso a vederle. Potevo. Amavo le automobili sportive. Le amo ancora.

Slaccio i calzoni. 

Contemporaneamente lascio precipitare la risma di A4. La vedo squinternarsi, guardo le parole planare, ebbre come me, in tutte le direzioni.


PIOVE DISSENSO. PIOVE DISSENSO. PIOVE DISSENSO.

Piove perché sto orinando dalla mia prigione al trentasettesimo piano sopra un mondo sbagliato. 



Arrivano. I miei carcerieri arrivano.

L'armeggiare convulso di serrature e chiavistelli non mi tocca. Li stavo aspettando.
 Erompo in una risata scema, alcolica. 
Resto lì a guardare il cielo, a respirarlo. Sarà l'ultima volta.


Poi l'incantesimo.

Entra lieve nel mio campo visivo un prodigio. Vedo un neonato fluttuare leggero, leggerissimo, quasi etereo. È appeso con le mani a un palloncino bianco. È un'allucinazione, lo so, ma voglio che sia la mia illuminazione.


Piango. 
 

Quattro braccia mi afferrano.
 Di colpo mi ritrovo in bocca la polvere del pavimento.

Sa di sangue, ho le labbra rotte.

Finirò nei cubicoli dei detenuti di rango inferiore, ma non m'interessa. Sono stato un uomo da poco, merito di finire i miei giorni in basso. 

Non me ne frega più un cazzo. Mentre pisciavo sul male, ho avuto una visione di beatitudine. Non conta se l'ho avuta perché sono ubriaco o perché dopo tanti anni chiuso qui sono diventato pazzo. Non m'importa. 
È la mente che vede. Gli occhi riescono solo a guardare.


Nota dell'autore



La sera dell'undici settembre 2041 quattro uomini armati in uniforme fecero irruzione nell'abitazione dell'artista clandestino noto come “Zero”. Le telecamere lo avevano colto in flagrante, il mattino dello stesso giorno, nell'atto di liberare dal cassone coperto di un van cinquecento palloncini bianchi, gonfiati con l'elio, ai quali erano appese altrettante sagome di carta raffiguranti un neonato. Punito con l'amputazione del dito medio della mano destra, sta scontando dieci di anni in una cella al quarto piano dell'Istituto di Rieducazione per i Traditori del Giusto. 

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